segunda-feira, 28 de março de 2022

DANS "Le Figaro

 Enzo CuzzolaUn ventennio a CANNAVO'...

Vincenzo Ventura il barbiere
Il salone del barbiere per noi era il luogo di incontro, infatti oltre la canonica, quando aperta, era l’unico posto dove si poteva stare, quando fuori pioveva o faceva freddo. L’ambiente non era grandissimo, anzi, a parte la “poltrona” e le cinque sedie “di bura”, per l’attesa dei clienti, rimaneva poco spazio. Quando Vincenzo Ventura, il barbiere, era all’opera, bisognava fermarsi fuori, ma in compenso, essendoci una specie di portico, che conduceva, attraverso l’androne di casa di Carmelo Uzzolino e Nata Bellé alla stalla di Nino U’ Mericanu, sotto l’albero di noci di zio Demetrio, c’era un poco di riparo. Vincenzo era un giovane di indole buona, affettuoso e disponibile con tutti. Anche con i ragazzi, si spazientiva difficilmente. Inoltre quella era l’unico posto dove c’era un quotidiano da leggere. Lo portava la mattina presto il primo autobus che arrivava in paese. Io, appena imparato, amavo leggere di tutto, ma non sempre oltre il libro di scuola e le confezioni del “trim”, c’era molto da poter leggere, per cui avevo preso passione per il quotidiano. Li potevo sapere del mondo oltre “il ponte di Prumo”.
Ho sempre voluto bene a Vincenzo come ad uno di famiglia e non potrò mai dimenticare come, il giorno in cui mio padre morì, furono vicini alla mia famiglia, con molta discrezione, lui e gli altri amici, compare Lorenzo, Pepé Marra e Ciccio Bellé.
SCHEDINE…da barba
Vincenzo era un appassionato giocatore di “totocalcio”, dedicava il tempo, tra un taglio ed una barba, a fare pronostici assieme ai suoi amici, giovanotti del paese. Compilavano la schedina 1, 2, X, tra un mare di discussioni e di “liti” calcistiche: vince il Milan, la Juventus o l’Inter, la Spal, il Novara, o il ….? Fu li che anche noi bambini imparammo a cosa serviva una schedina.
Tutti i lunedì mattina il salone era chiuso, il pomeriggio, invece, Vincenzo si dedicava alla pulizia della bottega.
Quel lunedì pomeriggio, vidi Vincenzo scendere dall’autobus, portava con se un cartone, all’apparenza pesante, lo aveva legato con lo spago, riproducendo il manico di una valigia per poterlo trasportare.
Appena mi scorse mi chiamò “vieni che ho portato il giornale”. Mi accomodai sulla poltrona con le gambe penzoloni a leggere il giornale, mentre Vincenzo scartava la scatola. Tirò fuori un pennello da barba nuovo, dei pettini, le forbici ed i rasoi che aveva portato a molare, del sapone ed altre chincaglierie. Poi tirò fuori una quantità enormi di schedine. Era la prima volta che vedevo tutte quelle schedine assieme, esclamai: ma quante ne giochi!?!... Vincenzo abbozzò un sorriso poi mi invitò a tornare il pomeriggio seguente, che mi avrebbe fatto vedere quante ne giocava ogni giorno.
Il pomeriggio seguente mi presentai puntualissimo all’appuntamento. Vincenzo scostò la tendina del retrobottega e mi fece guardare dentro un secchio, era pieno di schedine sporche di sapone da barba … le usava per tirare via il sapone dal rasoio.
LO SPOSALIZIO DELLA MUCCA
Capitava spesso, sempre più frequentemente da gennaio ad aprile, di veder passare per strada i contadini che tiravano una mucca dalla corda. Passavano la mattina e poi ritornavano nel primo pomeriggio verso le loro case, nella parte alta del paese. Chiesi a Vincenzo, il barbiere, dove portassero quelle mucche. Mi rispose che le portavano a sposarsi, con il toro di mio zio Vincenzo. Nella stalla di zio Vincenzo, infatti avevo visto, tenuto in disparte, un bell’esemplare di toro. Lo teneva per fecondare le proprie mucche. Avrebbero fatto nascere i vitelli, che appena svezzati sarebbero stati venduti ad altri allevatori, mentre le mamme avrebbero dato il buon latte per le famiglie.
Quel sabato mattina, essendo la scuola chiusa per le votazioni, mi ero piazzato sulla seconda poltrona del barbiere, a leggere, o almeno cercare di farlo, il giornale e ad osservarlo lavorare e sentire le conversazioni con gli uomini del paese. Da quella poltrona si apprendevano tante cose, ma si imparava anche a capire il genere umano. All’improvviso dallo specchio vidi un contadino tirare la sua mucca. Vincenzo disse la porta al toro. Salutai ed andai a chiedere il permesso a mamma di andare alla stalla di zio Vincenzo. Mi disse che non dovevo disturbare ogni giorno. Ma mi accordò il permesso con piacere, in fondo anche lei amava gli animali come il fratello ed era contenta che “affascinassero” anche me.
La mucca venne legata ad un palo, mentre il toro fu lasciato libero. Zio Vincenzo mi spiegò che i contadini portavano la mucca al toro per ingravidarla, quando questa era irrequieta, il che voleva dire che era in calore e quindi pronta per la monta. Ma quella volta il toro non ebbe un lavoro facile, perché la mucca era giovenca e faceva resistenza. Zio Vincenzo mi spiegò anche che se la monta fosse andata a buon fine, cioè se la mucca fosse stata ingravidata, allora il contadino avrebbe portato al toro un sacco di fave, in segno di riconoscenza. Ma purtroppo l’impresa non sempre riusciva.
Il pomeriggio raccontai la cosa agli amici di Vincenzo, al salone, uno di loro disse che invidiava il toro, in quanto “futti, mangia e mina puntati o muru”. A me per la verità il toro era sembrato un gran lavoratore, al contrario di quel giovinastro.
LA BARBA DOMENICALE
La domenica mattina il salone da barba era gremito, molti avventori erano addirittura costretti ad attendere il loro turno fuori dalla bottega, riparati sotto il balcone sovrastante o addirittura nell’androne di casa Uzzolino, appena accanto. Durante la settimana gli uomini lavoravano, prevalentemente, nei campi o nei cantieri edili, per cui la domenica era d’uso mettersi in ordine, anche perché non erano in molti che riuscivano a radersi da soli, infatti il rasoio a mano libera, che si usava, era un attentato alla incolumità del viso. Allora si ricorreva, appunto la domenica mattina, al barbiere, che non solo radeva e periodicamente tagliava i capelli, ma dava anche una riordinata a sopracciglia e peluria varia, quando periodicamente non tagliava anche i capelli.
Vincenzo si destreggiava come un Figaro, con rasoi a mano libera e sfilzini, forbici e pettini, spazzole e pennelli vari. La barba era un rito piacevole, a giudicare dalla soddisfazione con la quale i clienti si alzavano dalla poltrona. L’avventore si accomodava sulla apposita poltrona, nel salone ce ne erano due ma Vincenzo ne utilizzava quasi sempre una sola, quella più vicina alla porta di ingresso, dove c’era più luce. Una volta mi spiegò che in quel modo avrebbe sforzato di meno gli occhi ed avrebbe risparmiata una delle due poltrone, per invertirle, quando la prima si fosse usurata. Vincenzo intingeva e poi strizzava un panno nell’acqua calda che teneva sempre sul fuoco in apposito bollitore nel retrobottega. Appoggiava sulla faccia il panno caldo ed umido per un paio di minuti. Successivamente intingeva un folto pennello di setola in una ciotola di acqua calda e poi lo appoggiava nella ciotola metallica nella quale vi era del durissimo sapone da barba (il più pregiato era a base di sego), bastava appena un tocco. Il pennello veniva passato sulla faccia fino a quando il sapone da barba, abilmente montato da Vincenzo, che spesso assieme al pennello sfregava sul viso il dito indice per meglio compiere l’opera, non diveniva una morbida e soffice schiuma. Allora Vincenzo passava al rasoio a mano libera. Lo strusciava sulla apposita cintura di cuoio attaccata alla parete accanto allo specchio, poi via con la rasatura.
Era una vera arte. Quando la rasatura riguardava i punti più delicati, come la gola o accanto alle orecchie, Vincenzo invitava il cliente a tacere per qualche minuto, poi bloccava i movimenti tenendo leggermente, con la mano sinistra, la punta del naso e via. Finita la rasatura passava a rimarginare con la matita emostatica gli immancabili piccoli tagli, dovuti alla rasatura settimanale, e poi strofinava accuratamente il viso con l’allume di rocca, per disinfezione. Successivamente una spruzzatina di acqua di colonia, poi invitava il cliente a guardarsi allo specchio. A volte sistemava anche il “cozzetto”, quindi poneva uno specchio dietro la nuca in modo che ci si potesse guardare, attraverso il gioco di specchi, anche in quel posto.
Zio prete faceva la barba tutte le mattine, prima di andare a celebrare. Diceva che la barba è un piacere mattutino, che chi può deve concedersi.
U’ SEGGIARU
Era il martedì dopo Pasquetta, ancora in vacanza, per cui eravamo seduti con gli amici sulle consunte sedie di bura del salone di Vincenzo, che, nelle giornate calde, metteva fuori, sotto la tettoia, per gli avventori. Da tempo Vincenzo diceva che andavano riparate sia perché sghimbesce sia perché piene di buchi sulla corda del sedile. Dalla curva di Campolo spuntò un vecchino accompagnato da un asino, tirato appena per una corda molle, segno evidente che era abituato a seguire il padrone nel suo andare.
Appena ci videro, vecchino ed asino si arrestarono ed il padrone si avvicinò pregando di alzarci, lo facemmo, così egli ispezionò da cima a fondo tutte le sedie, poi chiese permesso e si affacciò sull’uscio del barbiere. Mercanteggiarono a lungo, un estenuante tira e molla, finché riuscirono ad accordarsi sul prezzo per la riparazione di cinque sedie, due con spalliere a tre muzze.
U’ seggiaru, dalle due bertole di iuta poste a bardatura dell’asino, estrasse pezzi di legno già predisposti per le varie componenti della sedia e metri e metri di “bura”. Sistemò dapprima i legni e poi, con abile intessitura, tutte le sedute. Il lavoro era lento ed il “mastro” lo accompagnava con piacevoli “muttette” a cappella e la spiegazione di quello che faceva dedicata alla nostra curiosità di ragazzi, che molto lo gratificava. Non ci perdemmo un solo istante o una sola mossa del lavoro, che finì a pomeriggio loinoltrato.
La sera a cena raccontai a mio padre della giornata e del seggiaru e del mercanteggiare con Vincenzo, che mi pareva strano avesse tirato tanto sul prezzo. Mio padre mi spiegò che si sarebbero potuti accordare immediatamente sul prezzo, ma il mercanteggiare era un’arte ed un piacere che nessuno di loro si sarebbe mai negato. Mi spiegò che la tecnica consisteva nel tagliare sempre la metà. Il seggiaru aveva chiesto 2 mila lire per ogni sedia, Vincenzo ne aveva offerte mille. Il seggiaru aveva rilanciato a mille e cinquecento, ricevendo, da Vincenzo, la controfferta di mille e duecento cinquanta, allora era sceso a mille e quattrocento e Vincenzo era salito a mille e trecento, alla fine si accordarono per mille e trecento.
Si aveva tempo allora, anche per mercanteggiare, ma si aveva tempo soprattutto per i rapporti umani.

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